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Atto III, Scena V
Ecate e le Streghe.
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ECATE: Non n’ho io donde, maladette Megere? E come si alletta in voi tanta tracotanza, razza perversa? Come ardite iniziare Macbeth ai misteri di morte, senza ch’io, sovrana de’ vostri malefizii, fossi interpellata per parteciparvi e porre in luce la gloria di nostr’arte? E tutto ciò per chi lo faceste? Per un ingrato tumido di fele e di rabbia, che, simile a tanti altri, v’accarezza solo perchè gli torna in bene; mentre v’abborre, e nell’intimo petto v’ha mille volte imprecate. Ovviate all’errore; allontanatevi; e dimani accorrete a me sulle sponde d’Acheronte. Macbeth verrà ivi per interrogarvi sul suo destino, e dovrete satisfarlo: io intanto m’alzo a volo, e riempirò la notte colle consuete arti. Una nube appunto si stacca dalla luna, e d’essa mi varrò per attorniare Macbeth di fantasimi. La rovina che l’attende non dee più aggiornarsi; e tempo è bene ch’ei l’affronti, s’ebbe il cuore per desiderarla. (s’intende una voce per aria che canta) Udite? È il mio piccolo Silfo, che aleggia sopra un raggio di luna, e a sè mi chiama. (esce)