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Atto III, Scena I
Emone e Creonte.
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EMONE:
Padre, fra quanti beni i Numi agli uomini
concedono, supremo è l’intelletto.
Io, che non giusto sia ciò che tu affermi,
dir non potrei, non lo saprei. Ma pure,
anche un altro parlar bene potrebbe.
Per tuo vantaggio investigo io ciò ch’altri
opera o parla, o a biasimo t’appone.
La tua presenza, sbigottiti rende
i cittadini, sí che non ti dicono
mai ciò che udire non ti piace: invece
io tutto posso udir, quanto nell’ombra
dicendo van: che la città commisera
questa fanciulla, immacolata piú
d’ogni altra donna, e che compiuta ha l’opera
la piú nobile, e in cambio ne riceve
la piú misera morte. Essa il fratello
che nel suo sangue cadde, non lasciò
che dai cani voraci, e dagli uccelli
fosse distrutto: non è dunque degna
d’esser coperta d’oro? — Ecco le voci
che, basse, oscure, vanno attorno. Ora, io,
bene non c’è che reputi maggiore,
o padre, della tua prosperità:
pei figli, infatti, c’è pregio piú nobile
che la fama e il fiorir del padre loro,
e pel padre dei figli? Or tu, nell’animo
non accoglier quest’unico pensiero,
che ciò che dici tu, quello sia giusto,
e poi null’altro. Chi d’avere crede
senno egli solo, ed anima e parola
come niun altri, se lo cerchi dentro,
vuoto lo trovi. A un uomo, e sia pur saggio,
non è disdoro molte cose apprendere,
e non esser cosí rigido. Vedi
presso i torrenti impetuosi, gli alberi
che si flettono, intatti i rami serbano:
quelli che invece fan contrasto, svelti
dalle radici piombano. E cosí,
chi su la nave troppo tese tiene
sempre le scotte, e mai non le rallenta,
naufraga infine, e naviga sui banchi
capovolti. Su via, l’ira tua frena,
e muta il tuo parer. Ché, se a me giovane
dare un consiglio è lecito, io ti dico
che per un uomo, il meglio è certo nascere
pien di saggezza; ma tal sorte è rara;
e bello è pur da chi ben dice apprendere.